
L’aggressione militare lanciata da “Israele” contro l’Iran il 13 giugno 2025 rappresenta un punto di non ritorno. Non si tratta di un semplice episodio di escalation regionale: è una dichiarazione di guerra a pieno titolo che segna un momento di svolta nell’aggressione sistematica condotta dall’asse imperialista statunitense-sionista contro le forze rivoluzionarie arabe e islamiche della regione. Un atto che accelera la transizione da una crisi regionale a un conflitto mondiale latente, il cui epicentro continua a essere la Palestina colonizzata.
Non si può comprendere la portata dell’aggressione “israeliana” se non si colloca questo attacco nel quadro di un’escalation militare studiata da tempo, parte integrante della strategia congiunta “israelo”-statunitense per colpire, dividere e spezzare la resistenza che, dal 7 ottobre 2023, ha riconfigurato radicalmente i rapporti di forza nella regione. L’Iran, attore centrale del fronte anti-sionista, viene preso di mira non per presunti sviluppi nel programma nucleare, ma per il suo ruolo di sostegno alle lotte armate e popolari che si oppongono al progetto coloniale sionista e all’egemonia occidentale nella regione.
L’aggressione non è frutto di un calcolo improvvisato. È il risultato di una lunga preparazione diplomatica, militare e mediatica, messa in moto in parallelo al genocidio in corso in Palestina, ai continui bombardamenti sul Libano, all’occupazione in espansione del territorio siriano e agli attacchi sistematici contro lo Yemen. In questo contesto, il raid contro Teheran rappresenta il tentativo disperato di un sistema coloniale in agonia di riconquistare l’iniziativa militare e simbolica. In Cisgiordania, il blocco totale imposto dalle forze di occupazione si inscrive nella stessa logica: l’obiettivo non è la sicurezza, ma la pulizia etnica. Ogni villaggio isolato, ogni checkpoint rafforzato, ogni arresto di massa è parte del progetto di completamento della colonizzazione, non più solo di Gaza, ma dell’intera Palestina.
Lo stesso discorso di Netanyahu rivolto direttamente al popolo iraniano, esortato a rovesciare il proprio governo, chiarisce le vere intenzioni: non solo colpire militarmente, ma sovvertire l’intero assetto politico iraniano, aprendo la strada a un ordine regionale dominato dal sionismo, in cui ogni opposizione venga disarticolata alla radice.
L’ordine imperialista, costruito sulle rovine delle rivoluzioni arabe e sulla frammentazione coloniale dei territori, mostra sempre più chiaramente le crepe della sua crisi strutturale. Il sionismo, espressione armata e ideologica di questo ordine, è oggi in crisi esistenziale: delegittimato sul piano globale, incapace di garantire sicurezza ai suoi coloni, ridotto ad amministrare un’occupazione che si regge solo sulla violenza più brutale. La sua risposta è la guerra totale. Una guerra che non si accontenta più di reprimere, ma punta a trascinare l’intera regione in una spirale distruttiva, prima di collassare.
Il bombardamento di obiettivi strategici iraniani avviene in un momento delicato: da settimane si registravano segnali di una possibile ripresa del dialogo tra Teheran e Washington sul programma nucleare. Colpire ora significa sabotare ogni spazio di trattativa, innescando uno scontro aperto e definitivo. Il dossier nucleare, agitato come pretesto, maschera in realtà un disegno ben più ampio: colpire il centro propulsore della Resistenza regionale, isolare l’Iran, impedire la costruzione di una rete di alleanze che sfidi l’architettura imperiale e apra a un progetto di decolonizzazione nella regione.
L’annullamento della Conferenza ONU sulla “soluzione a due Stati”, convocata da Francia e Arabia Saudita, proprio all’indomani dell’attacco “israeliano” contro l’Iran, rivela in filigrana la totale irrilevanza del discorso diplomatico per un regime sionista che non mira alla pace, ma alla sottomissione completa del popolo palestinese e alla colonizzazione definitiva della Palestina. In questo quadro, risulta sempre più miope e complice la retorica di certi settori della sinistra istituzionale occidentale che continuano a invocare soluzioni fittizie basate su confini e Stati, ignorando che il nodo non è la convivenza tra due entità, ma la liberazione totale dai meccanismi del sionismo coloniale.
Allo stesso tempo, “Israele” approfitta della crisi interna siriana, aggravata dalla caduta del regime di Assad, per intensificare l’occupazione di territori strategici nel sud e nell’est della Siria, consolidando una nuova geografia coloniale che garantisca profondità militare e continuità territoriale al suo progetto di supremazia regionale. È in questo quadro che l’attacco all’Iran assume pienamente il suo significato: non come una deviazione, ma come una tappa coerente del contrattacco reazionario contro l’onda rivoluzionaria apertasi il 7 ottobre.
La Resistenza palestinese, con la sua irruzione armata e politica, ha infranto l’illusione di una “normalizzazione” e ha riattivato una spinta di decolonizzazione che si è irradiata dai campi profughi alle capitali arabe, dai porti yemeniti alle montagne del sud del Libano. L’attacco a Teheran è dunque un colpo diretto a questa traiettoria storica: si vuole soffocare la possibilità di un’alternativa, far rientrare le popolazioni e le forze rivoluzionarie nella gabbia della paura, dell’assedio e della sconfitta.
È sintomatico, in questo contesto, che anche i settori cosiddetti “moderati” dell’opinione pubblica “israeliana” – e dell’opposizione politica parlamentare – abbiano accolto l’attacco all’Iran come necessario, inevitabile o addirittura “giusto”. Si rivela così la realtà strutturale del consenso interno al progetto coloniale, smentendo ogni narrazione illusoria su presunti fronti democratici o alternativi all’interno del sionismo. Ridurre il conflitto alla figura di Netanyahu è un errore grave: è l’intera architettura ideologica del sionismo a essere orientata alla guerra permanente come condizione della propria sopravvivenza.
Ma ciò che emerge con chiarezza è anche il grado di vulnerabilità dell’ordine imperialista. L’alleanza tra Stati Uniti e “Israele”, da sempre pilastro della dominazione coloniale sulla regione araba, appare oggi guidata non più dalla sicurezza della superiorità, ma dal terrore del declino. L’imperialismo, per sopravvivere, è costretto a incendiare. Ma è proprio in questo tentativo estremo che si manifesta la sua fragilità: un sistema capace solo di distruggere, senza più legittimità né futuro.
Il 13 giugno non apre soltanto un nuovo fronte: disegna un orizzonte di guerra globale. La possibilità concreta di una terza guerra mondiale, con epicentro nel cuore arabo della regione, non è più una semplice previsione teorica, ma un rischio tangibile. Ed è attorno a questo nodo che si giocherà il prossimo ciclo storico: tra chi vuole riportare indietro il tempo e chi, nella Resistenza, costruisce il possibile oltre l’imperialismo e il sionismo.
In questo contesto, l’impegno nelle geografie della diaspora non è né simbolico né secondario. Ogni infrastruttura, ogni collaborazione, ogni legame economico, politico e militare che lega lo Stato italiano al sionismo e alla macchina imperiale statunitense rappresenta un nodo da colpire. È in Italia, come altrove in Europa, che si muove il carburante politico, finanziario e ideologico che alimenta la guerra coloniale contro i popoli della regione.
La mobilitazione deve essere materiale: boicottaggio delle imprese e istituzioni colluse con l’impresa coloniale sionista; pressione diretta contro le università, i porti, le basi militari e le aziende che cooperano con l’industria bellica “israeliana” e statunitense. Supportare la Resistenza oggi significa rompere l’impunità dell’impero là dove si muove. Fare pressione là dove vive, cresce, si protegge. È nel cuore dell’Occidente coloniale, nel cosiddetto “ventre della bestia”, che si può colpire alle fondamenta l’edificio del dominio. E questo, oggi, è parte imprescindibile del fronte.