
Mercoledì scorso all’Aquila è proseguito il processo contro Anan Yaeesh, Ali Irar e Mansour Doghmosh. E ancora una volta, ciò che si è consumato in aula non è stato solo uno scontro fra tesi giuridiche, ma una vera e propria epurazione del contesto. La Corte continua a ripetere, con ostinazione quasi rituale, che questo non è un processo politico. Che si tratta di un procedimento tecnico, neutro, asettico.
Eppure, tutto il dispositivo messo in campo – dalla selezione dei testimoni all’ammissione di prove ottenute senza garanzie, fino alla gestione della parola – tradisce l’esatto contrario: la volontà di giudicare politicamente, senza riconoscere la natura politica di ciò che si giudica.
Anan ha preso parola ancora una volta. Con lucidità e coraggio, ha riportato la Corte all’essenziale:
“Signor giudice, perché non mi date il diritto di difendermi? Il procuratore usa documenti contro di me, ma voi rifiutate quelli che io ho presentato. Mi interrompete quando parlo, mettete fretta a me e alla mia difesa. È come se, una volta finita quest’udienza, io dovessi andare alle Maldive e non tornare alla mia cella in questo carcere ”.
“Io sono qui [in carcere] per motivi politici. Non ho fatto nulla contro l’Italia. Voi dite che questo non è un processo politico, ma siete voi a usare la politica per giudicarmi. State usando atti israeliani, di un paese che non rispetta i diritti umani, e rifiutate le prove che parlano della nostra storia e della nostra resistenza.
Voi state continuando l’oppressione che ha compiuto Israele su di noi [popolo palestinese].
Sento che stiamo subendo una grande ingiustizia. Questo processo somiglia sempre di più ai tribunali francesi contro gli algerini.”
Durante l’udienza sono stati ascoltati alcuni periti tecnici, tra cui quello balistico. Il perito ha riferito che l’“arma” mostrata in una fotografia dei tre imputati era in pessime condizioni, non funzionante e facilmente reperibile in commercio. Alla domanda su che materiale fosse fatta, la risposta è stata secca: Plastica.
Una delle colonne portanti della narrazione dell’allarme terroristico – quella della minaccia armata, della pericolosità militare – si è così sgonfiata sotto il peso della perizia: era un fucile giocattolo. Un’arma di plastica.
E allora, giustamente, ci si chiede: su cosa si fondano queste accuse di terrorismo? Su un giocattolo postato in una foto? Su post pubblicati anni fa sui social, che raccontavano l’esistenza di allora? Su queste tre vite che si vogliono strappare al proprio contesto, come se chi ha vissuto in Palestina fino al 2016 potesse parlare di sé come se fosse cresciuto altrove, in un mondo che non conosce occupazione militare, rastrellamenti, umiliazioni quotidiane?
La vita in un territorio occupato non è una parentesi: è una condizione politica concreta, quotidiana, che non può essere rimossa. Ignorarla non significa essere imparziali, ma prenderne parte. È contribuire, anche solo con l’apparente oggettività del diritto, a quel processo di spossessamento che toglie ai popoli occupati persino la possibilità di raccontarsi a partire da sé.
È diventare parte, consapevole o no, di un’oppressione che si regge sulla pretesa di raccontare l’altro svuotandolo della sua storia, della sua realtà, del suo diritto, imprescindibile, alla resistenza.
È fare del tribunale uno strumento dell’occupazione, mentre si continua a ricoprire questa violenza con la vuota retorica degli Stati democratici, con la grammatica stanca e rituale della legalità liberale.”