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NO alla zona rossa di Stazione Tuscolana!

Più voci dall’Alberone e dal Settimo Municipio per dire no alla zona rossa di Stazione Tuscolana.

Comunicato dopo l’assemblea di quartiere di domenica scorsa:

Non è bastato deturpare e restringere i residui spazi sociali nel quartiere, non è bastata la chiusura del Maestoso nel 2018 che, con i suoi sessant’anni di attività, ha lasciato per strada una decina di lavoratori e le loro famiglie in virtù delle manovre del fondo immobiliare che ha tuttora in mano la struttura (e possibilmente di altri a cui l’immobile potrà apparire appetibile in vista del Giubileo). Non sono stati sufficienti i danni erariali al Parco della Caffarella e i fanta-progetti dell’assessorato, che prevede di smantellare l’area del mercato per investire ulteriori sei milioni di euro nella riqualificazione nonostante il progetto del Centro Polifunzionale Appio I non sia ancora concluso. Da oggi, il quartiere Alberone, già devastato dalle speculazioni predatorie delle multinazionali e dal risiko immobiliare presente e futuro, diventa un luogo dove sperimentare “nuove” forme di repressione. Ci riferiamo infatti all’ultimo provvedimento, in linea con la direttiva del 3 gennaio scorso inviata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi in tema di “sicurezza”: l’individuazione e l’istituzione di zone rosse. Queste zone rosse (presenti nel VII municipio intorno alla Stazione Tuscolana, a Piazza Ragusa, a Via Adria, Via Monselice e Via Mestre) sono dispositivi di polizia volti ad allontanare da un certo territorio individui che abbiano precedenti penali, o per citare il dettato del provvedimento, “individui che risultino denunciati o condannati, anche con sentenza non definitiva, nel corso dei cinque anni precedenti, per delitti contro la persona o contro il patrimonio commessi nelle aree interne e nelle pertinenze di infrastrutture ferroviarie, aeroportuali, marittime e di trasporto pubblico locale, urbano ed extraurbano”. Possono inoltre essere allontanati dalle zone rosse anche individui che appaiano vagamente “sospetti” alle forze dell’ordine, lasciando un’ampia discrezionalità all’operato poliziesco.
A prescindere dalla ratio che potrebbe aver portato all’implementazione di questa misura (qualche episodio di “degrado” denunciato via social da un “cittadino perbene” caro a Rampelli?) è chiaro che queste misure repressive servano a disciplinare la circolazione urbana in un senso che blocca ogni possibilità di aggregazione spontanea che non sia basata sulla necessità di consumare, far circolare capitale o semplicemente transitare neutralmente tra gli spazi lividi della città. La possibilità di essere allontanati solo su un vago sospetto di pericolosità ne è la prova: quello che importa non è il concetto fumoso di “sicurezza”, ma restringere le possibilità di vita accettabili in un quartiere che si vuole privo di asperità, e invece liberissimo di essere invaso dalla più bieca e insensata speculazione economica, che giocoforza nessuno ha interesse a fermare.
Superare insieme l’ossessione per la sicurezza significa invece vivere meglio e insieme il “diritto alla città”: significa meno edifici inaccessibili a livello di uso sociale (uno tra tutti in quartiere: l’ex poligrafico a Via Gino Capponi), più case a prezzi accessibili, significa maggiore comunicazione e intreccio di vita da sperimentare in spazi pubblici liberi da logiche di profitto; significa rivendicare un maggiore sostegno economico a chi ha bisogno, e possibilità di esprimersi (artistiche, sociali, sportive, associative) che rompano con il manganello fattuale e simbolico della città pietrificata a suon di decreti repressivi cara a Meloni, Rampelli e Piantedosi. E significa, in ultima istanza, più sicurezza, che non può che arrivare affrontando i problemi alla radice. Questo quartiere può e deve vivere meglio.

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